Con l’indomabile fuoco di Cernobyl del 1986 non è stato soltanto aggredito il nostro ambiente vitale per un periodo a lunga scadenza, ma io ho perso anche il mio giardino interiore. Nei miei sogni egli corrispondeva presso a poco al giardino di un chiostro e lo chiamavo hortus conclusus. Nel 1989 ho dedicato al tema hortus conclusus una mostra organizzata nel chiostro di Santo Spirito a Firenze. L’esposizione mi ha fatto capire che questa armonia elementare comporta molteplici aspetti.
Non era privo di fascino cercare in tutti i dizionari di storia dell’arte, d’iconografia ecclesiastica e di architettura della Maternushaus a Colonia, tra le voci „chiostro„, „giardino monastico“ e „hortus conclusus„, attraversando tutte le lingue europee dal XVIII secolo in poi. Sembrava che tutti avessero copiato l’uno dall’altro, parola per parola. La differenza più eciatante era causata dal passare del tempo: più vecchio era il dizionario, più iunghe le sue spiegazioni. Non esiste comunque una parola la per il giardino al centro del chiostro, una volta sola ho trovato l’indicazione tecnica „quadrum“ che significa rettangolo. Termine che non appare nei disegni architettonici di monasteri. Fino al IX secolo, si accennava, al massimo, ai pozzi, dandogli un numero. Devo ammettere che durante questa ricerca, superata la delusione, mi rallegravo sempre di più di non trovare questo luogo rettangolare nella storia dell’arte e nella storia dell’architettura. Mi si porgeva innanzi per farsi scoprire. Decisi di colmare queste lacune con il concetto virginale di hortus conclusus e da allora questo felice collegamento è fonte di continua ispirazione. I1 giardino paradisiaco concluso si è aperto come il forziere di un tesoro; non soltanto io, ma anche i miei colleghi e amici aggiungono le tessere di mosaico o interi pezzi di roccia all’interpretazione di questo spazio metafisico. L’hortus conclusus viene indicato nei dizionari semplicemente come simbolo della verginità di Maria. Nella letteratura specializzata troviamo spiegazioni simboliche e simbolistiche, forse anche remote allusioni sessuali, ma nessun trattato esplicito del concetto. Anche questo mi ha rallegrato. Intere biblioteche sono state riempite con testi sulla Immacolata Concezione attraverso „l’orecchio“ anziché dagli organi sessuali, e anche sullo stato eletto di Maria e sulle conseguenze dirette e indirette di questa parte importante della storia della chiesa per le donne e le relazioni tra uomo e donna. Mi viene in mente una biblioteca dedicata a questo tema e una cappella consacrata a Maria che da secoli stanno una di fronte all’altra e si insultano a vicenda: bugiarda! Verità bugiarda!… Forse tutte e due hanno ragione. Ma secondo me tutta la voluminosa controversia dovrebbe essere tolta di mezzo e consegnata ai mistici, perché viene da loro e appartiene a loro! Basta rileggere come il grande mistico di casa nostra Eckhart ha piegato le sue capacità spirituali per attestare alla verginità una fenomenologia non specificatamente femminile e all’essere donna lo stato di maturità umana. Questa forza visionistica sarà necessaria per comprendere un’idea dell’umanità cosi complessa e poi addirittura definirla anche verbalmente? Lasciamo allora da parte Maria e il problema clerico-maschile e scopriamo piuttosto le dimensioni dell’hortus conclusus.
Vi descrivo un chiostro: è un cortile tra la chiesa, luogo del nutrimento spirituale, e il refettorio, luogo del nutrimento corporeo. Un deambulatorio quadrato posto intorno al „giardino“ interno, in genere chiuso o in qualche modo segregato. Al centro di tutto questo sta il pozzo, fontana che butta dal profondo, „specchio del cielo„. Dalla fontana, al centro del complesso monastico, in genere si vede il campanile, una meta e un segnale puntato verso l’alto. Tutte e due possono essere intesi anche come elementi generativi. Accanto al pozzo spesso si trovava un juniperus sabina (ginepro sabina). Questo albero viene piantato ancor oggi nei cimiteri: si riteneva efficace contro spiriti maligni e contiene anche principi abortivi. Dal pozzo centrale quattro vie conducono nelle quattro direzioni cardinali. Essi possono simboleggiare anche quattro fiumi che partono da un’unica fonte. Tutto sommato si tratterebbe di una rappresentazione stilizzata del paradiso biblico, un paradiso veramente chiuso. Fino ai giorni nostri buona regola vuole che nessun turista possa penetrare in questo luogo. Il sapere di quest’ordine simbolico in genere è sparito dalla coscienza dei frati e delle monache. Cercando nel dizionario sotto la voce architettonica „Paradiso„, si trova tutt’altro impianto, una deviazione dall’hortus conclusus. Inoltre il paradiesgärtlein (giardinetto paradiso) è un libro e cioè un galateo per giovani suore del medioevo scritto da Harrad Landsberg. Cortili interni si trovano da sempre in edifici sacri e profani, così si risolveva il problema delle acque piovane oppure si poteva filosofare con gusto all’ombra del deambulatorio e contemplare il cielo ritagliato a rettangolo.
Sappiamo che i luoghi sacri possiedono una storia lunga come la storia dell’umanità. Nel Vecchio Testamento sta scritto che il luogo sacro doveva apparire per prima cosa come una visione e poi, trovato, lo si doveva marcare con una pietra unta; regole queste dei nostri antenati precristiani.
Sotto quasi tutti gli altari toscani di questo millennio si trova un altare romano, sotto questo uno etrusco e ancora sotto montagne di pietre frantumate e unte, derivanti da altri altari di pietra di altre stirpi umane. Leggendo le gesta di Don Juan (Castaneda) si capisce quanto sia impegnativo ma anche liberatorio trovare il posto giusto.Come in Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, dove Abramo sta nell’Abramo che sta nell’Abramo e ognuno di questi aggiunge la sua parte alla figura completa (Gesamtfigur) e ognuno è contemporaneamente la figura intera, cosi anche l’ultima forma del luogo sacro contiene i singoli stadi del più antico e di tutti gli altri contemporaneamente. Ci troviamo di fronte ad un pozzo inesauribile di nostalgie umane e della storia dello spirito, i cui segni hanno assunto la forma pietrificata, diventando intellegibili e usufruibili per chi iè capace e desideroso di ascoltare. Con questa coscienza sono nati i lavori per la mostra del 1989 in S.Spirito.
Lo sviluppo ulteriore di questo tema è avvenuto a Colonia. Virtualmente ho vissuto nella biblioteca della Maternushaus la storia della costruzione di S. Pietro (a Colonia) e le vicissitudini del chiostro durante i secoli. Davanti ai nostri occhi interiori l’ho visto sparire per sempre. Da qui inizia il nuovo hortus conclusus: non ci sono neanche testimonianze architettoniche. Futuro e passato si dividono. L’hortus conclusus di S.Pietro a Colonia viene oggi pestato dalla rettilinea Sternengasse. L’hortus conclusus consiste in pietre erose, unte e inserite nei muri della chiesa, il giardino è quindi invisibile come il mio disperso giardino interiore e come il mondo che Partista cerca di visualizzare.
Occuparsi dell’invisibile corrisponde ad entrare in relazione con l’hortus conclusus immaginario di S. Pietro e mi ricorda il „suono dell’organo“ di Herman Hesse. In questa poesia egli descrive l’invenzione dell’organo e anche i maestri organai, i compositori e gli organisti fino al momento in cui finalmente l’organo suona nella chiesa:
„… Perchò lo stesso spirito che respira nelle fughe e nelle toccate una volta possedeva costoro che misuravano le proporzioni del Duomo e dalle pietre scolpivano figure di santi…“
Poi il mondo si trasforma a causa delle guerre del disinteresse:
„Breve è la vita e non c’è tempo per dedicarsi a complicati giochi di pazienza…“
Ma nonostante tutto esiste l’organo con la sua musica:
„… Nel buio sottorreneo fluisce eternamente il fiume sacro, appaiono talvolta dal profondo i suoi suoni, chi li ascolta sente regnare un segreto, lo vede fuggire, desidera fermarlo. Arde di nostalgia. E intuisce bellezza„.
Il mistico Juan della Cruz descrive questa dimensione come segue:
„… Se vuoi raggiungere quello che non sai, devi andare là dove non sai niente. Se vuoi raggiungere quello che non possiedi, devi andare dove non possiedi nulla…“
Come ci si orienta in questo mondo stracolmo e invisibile? Ho fatto cercare nella genesi a proposito della cacciata dal paradiso terrestre e, guarda caso, non si è trovato nessun nome per quella zona nella quale vennero spinti gli espulsi, in questa „non-Eden„. Più tardi, ai tempi del maestro Eckhart, sappiamo quanto sia funesto questo „niente“ e quanto corrisponde alla fatalità di questo mondo. Maestro Eckhart: „… Per terza cosa devi essere libero dal ’niente‘. Ci si chiede cosa brucia nell’inferno. Sentite una parabola: si prendano carboni ardenti e si pongano nella mia mano. Se io dicessi che il carbone brucia la mia mano le farei un grande torto. Devo indicare esattamente quello che mi brucia? E il ’niente‘, perciò il carbone contiene qualcosa di cui la mia mano non possiede „niente“. Vedete allora che proprio questo ’niente‘ mi brucia. Se la mia mano possedesse tutto quello che rappresenta e riesce a fare il carbone, possederebbe completamente la natura del fuoco. Se allora qualcuno prendesse tutto il fuoco e lo buttasse sulla mia mano, non sentirei dolore…“
Si tratta dunque di scoprire niente di meno che il mondo „rettangolo invisibile“, di dargli un nome e di liberarlo dal „niente„.
Ritorno all’inizio: la radioattività di Cernobyl è soltanto la manifestazione piu recente della lotta eterna tra Eden e non-Eden, tra utopia e condizione di tipo reale, tra libera energia e resistenza. Paradigma hortus conclusus: livelli estremamente differenti possono essere trasmutati attraverso processi creativi e artistici in relazioni tangibili e vivibili.
Testo di Padre Gino Ciolini, Convento di Santo Spirito, Firenze
La forma è tutto l’essere di un’artista che si distende, per stimoli interni-esterni negli spazi e nei tempi, e poi si contrae in se stesso riducendo a particolare l’universale, con l’obbligo però ed il debito di restituirlo alla contemplazione ed alla comunicazione degli altri dove, perciò, il presente è il richiamo, ii rinvio, la speranza, la memoria del passato e del futuro: in altre parole è il momento magico-tragico della creatività.
Anche i termini „laico“ – „religioso„, sul primo dei quali spesso insistono i critici d’arte mentre io faccio uso convinto del secondo che per me richiama una cifra e insieme una metafora per dire la gioia e la sofferenza dell’Uno calato nel molteplice e questo riafferrato dall’Uno che è perenne movimento, sono dei modi di dire dell’arte non più propriamente platonici ma più specificatamente agostiniani: Ars in mente, ars in opere (S. Agostino vd. Goethe in-. Die Farbenlehre).
Parlando di forma nell’arte, e specialmente nell’arte di Deva Wolfram, non parlo di categorie definite in termini di fede o di illuminismo ma ne parlo come storia di creazione spazio-temporale e storia di creature: di custodia dell’indeterminato e del suo habitat quale però lo intuisco dall’interno. del mio spirito, della mia carne e del mio sangue, traducendo cosí e non altrimenti una esperienza irripetibile, una memoria immemorabile che conosce i confini e cosi conosce l’oltre.
Gino Ciolini Firenze 1993